venerdì 28 aprile 2017

ERA MIO PADRE

(Road to Perdition di Sam Mendes, 2002)

Finalmente, dopo una lunga attesa, nel 2002, proprio con questo Era mio padre, abbiamo potuto ammirare Tom Hanks nei panni di un assassino, uno degli attori dalla faccia più buona di tutta Hollywood calato nella parte di figlio adottivo e guardaspalle del boss John Rooney (Paul Newman), capofamiglia di origini irlandesi che gestisce molte delle attività illegali che fioriscono dalle parti di Rock Island, Illinois. Siamo negli anni della grande depressione e del proibizionismo, anni in cui è possibile arricchirsi sul vizio, con l'alcool e con una sana dose di violenza.

Mike Sullivan (Tom Hanks), padre e marito amorevole, ha un debito d'amore e riconoscenza per il vecchio Rooney che l'ha cresciuto come fosse stato suo figlio, al pari della vera carne della sua carne, il suo vero discendente Connor (Daniel Craig). Come spesso accade in queste situazioni il figlio adottivo è vero motivo d'orgoglio per il padre, uomo tutto d'un pezzo sul quale si può sempre fare affidamento, giusto, moderato, spietato quando serve, fedele e leale, al contrario del figlio naturale: arrivista, traditore, subdolo e inetto. È un bel contrasto quello che porta in scena Tom Hanks, uomo d'altri tempi con un mestiere sporco, sporchissimo, ma allo stesso tempo marito devoto, padre innamorato dei due figli maschi, forse poco attento, inevitabilmente distante in alcune occasioni, giustamente preoccupato per il futuro dei suoi figli, tanto da nascondere loro la reale natura del suo ruolo nella famiglia Rooney il cui capostipite è per i due ragazzi, Michael Jr (Tyler Hoeclin) e Peter (Liam Aiken), un nonno a tutti gli effetti. Poi accade l'irreparabile, il vecchio è costretto a scegliere tra i suoi due figli, tra il legame di sangue e quello affettivo e purtroppo, si sa, il sangue non è acqua.

Inizia a dipanarsi una storia di vendetta e fuga con protagonista l'ex rampollo prediletto ora diventato reietto, i due Mike Sullivan (senior e junior) intraprendono un viaggio attraverso gli ampi spazi di un'America centrale e rurale, alla ricerca di appoggi nella persona di Frank Nitti (un convincente Stanley Tucci), boss di Chicago, di scappatoie e nascondigli e alla volta di una riscossa che non teme nessuno, né legami familiari ormai spezzati né pezzi grossi come Al Capone (nel film solo nominato). Il viaggio per la sopravvivenza sarà anche il modo per padre e figlio di stringere un legame più forte e in fin dei conti sarà anche l'occasione per conoscersi per davvero, per dimostrarsi l'un l'altro uno degli amori più puri che possano esserci, un legame rappresentato in maniera sobria ma tanto potente da costringermi a mettere in pausa il film per andare in camera di mia figlia preso dal bisogno impellente di baciarla mentre dormiva per poi continuare con la visione del film.

A chi mi chiede se Michael Sullivan era una brava persona o solo un poco di buono... io do sempre la stessa risposta. Dico soltanto... era mio padre.


Un rapporto davvero splendido quello tra questi uomini, graziato oltre che dalla bravura di un Tom Hanks inappuntabile, dalla magnifica presenza di un Paul Newman qui alla sua ultima apparizione e dal precoce talento di Tyler Hoeclin perfetto nella parte del giovane Mike jr. Anche la bella fotografia d'epoca, le panoramiche su un'America che non è più, contribuiscono alla riuscita di un film che presenta diversi aspetti degni di nota. Marginale è forse l'aspetto criminoso della vicenda, pur se ben presente è mitigato da una visione dei personaggi principali che sono uomini, padri, figli, prima che gangsters. Menzione anche per la figura del sicario fotografo interpretata da Jude Law, ennesimo protagonista maschile in un film di soli uomini, fatta eccezione per la moglie di Sullivan interpretata da Jennifer Jason Leigh.

Bella prova seconda per Sam Mendes, uno dei pochi registi che è riuscito a farmi addormentare in sala con il suo American beauty (ma forse ero stanco io) e che poi, colpevolmente, non ho più avuto modo di seguire. Chissà, forse sarà davvero il caso di rimediare.

lunedì 24 aprile 2017

STATE OF PLAY

(di Kevin Macdonald, 2009)

La figura del giornalista investigativo al cinema ha sempre avuto un fascino particolare ed è stata protagonista di pellicole di valore ma soprattutto coinvolgenti, pensiamo a film come Tutti gli uomini del Presidente di Alan J. Pakula, lo Zodiac di David Fincher, il datato L'asso nella manica girato da un Billy Wilder per una volta lontano dalla commedia, e ora riaffiora alla mente soprattutto il bellissimo Insider - Dietro la verità di Michael Mann, anche questo con Russell Crowe tra i protagonisti, allora informatore per il giornalista interpretato dal maestro Al Pacino, qui invece protagonista assoluto e navigato giornalista del Washington Globe.

Probabilmente State of play non è all'altezza di nessuno dei film sopra citati, ad ogni modo risulta essere un thriller investigativo solido, ben strutturato e avvincente, con qualche scivolata qua e là ma con la capacità di tenere lo spettatore ancorato a una narrazione che desta interesse pur abusando nell'uso del colpo di scena, certo funzionale al genere ma soprattutto sul finale adoperato con una certa leggerezza attraverso espedienti forse già visti davvero troppe volte.

Ad ogni modo l'impianto narrativo funziona: in una buia nottata di Washington un killer (Michael Berresse) fredda un ladruncolo in possesso di una preziosa valigetta senza farsi scrupolo di eliminare anche un innocente testimone di passaggio. L'uomo però commette un errore, il testimone, pur se in stato comatoso, sopravvive. Parallelamente a questa vicenda si sviluppa quella del deputato Stephen Collins (Ben Affleck) che porta avanti un'inchiesta per scoperchiare vicende poco chiare legate alla Pointcorp, un'agenzia che usa ex militari per compiere missioni all'estero dietro cospicui pagamenti e che, cosa ben più inquietante, si sta muovendo per assumere un ruolo preminente nella privatizzazione della difesa interna su suolo americano. L'assistente personale del deputato, Sonia Baker (Maria Thayer) molto addentro alla vicenda, si suicida inspiegabilmente.


L'opinione pubblica e i media, invece di interessarsi allo strano suicidio, si gettano a capofitto sulla relazione extraconiugale di Collins con la Baker, vicenda che finirà tra le mani della blogger Della Frey (Rachel McAdams) in forza alla sezione online del Washington Globe. Invece uno dei dinosauri del giornale, il veterano Cal McAffrey (Russell Crowe) affezionato a carta e inchiostro e allergico alle nuove tecnologie, sta scavando sul duplice omicidio, pressato dalla direzione di un giornale ormai in piena crisi rappresentata dall'editore Cameron Lynn (Helen Mirren). Inutile dire che le due vicende troveranno punti in comune e la strana coppia di giornalisti diverrà un'unità investigativa pronta a tutto per riportare a galla le verità nascoste e insabbiate da poteri forti.

C'è un buon ritmo in State of play, una regia diligente che segue gli stilemi del genere, un buon cast di interpreti, Affleck è come spesso accade un po' imbalsamato ma qui non è sua la parte del leone che spetta invece a un Russell Crowe imbolsito che ancora una volta dimostra di essere un attore di razza eclissando un po' tutti ad eccezion fatta per la sempre in gamba Helen Mirren. Quello del giornalismo investigativo, sorta si sottogenere del thriller, ha i suoi codici che qui vengono rispettati, andando a costruire un film che non presenta innovazioni ma intrattiene e appassiona, per chi ama questo tipo di strutture narrative un film a cui dare senz'altro una possibilità.

sabato 22 aprile 2017

TI AMERÒ SEMPRE

(Il y a longtemps que je t'aime di Philippe Claudel, 2008)

Ci sono esperienze che è impossibile lasciarsi alle spalle, non del tutto almeno, nonostante il tempo passato, nonostante la vicinanza delle persone care (anche se questa a volte si manifesta in maniera tardiva), nonostante gli sforzi e la vita che giorno dopo giorno in qualche modo continua a scorrere e a offrire, anche se parrebbe impossibile, nuove opportunità, nuove strade, nuovi assetti. Ma il passato non si dimentica, continua a ferire, scava, trasforma, si ripropone in un dolore spesso lancinante e non allontanabile.

È ciò che accade a Juliette (Kristin Scott Thomas) che dopo una lontananza durata anni torna a riavvicinarsi alla sorella minore Léa (Elsa Zylberstein) e alla sua famiglia: il marito Luc (Serge Hazanavicius) e le loro due piccole bambine adottive, due nipotine che Juliette non ha mai avuto occasione di conoscere. Si percepisce da subito che l'atmosfera però è tesa, che l'incontro è dettato da cause fuori dal comune e che qualcosa di grave abita nel passato delle due donne, o di una di loro almeno. Il regista Philippe Claudel, noto più come scrittore e qui all'esordio dietro la macchina da presa, è bravo a intessere un'alone d'inquieto mistero almeno nelle prime battute del film, mistero che per esigenze di copione è intuibile e viene presto svelato: Juliette ha passato gli ultimi quindici anni della sua vita in prigione per omicidio. Eppure Juliette non ha il profilo dell'assassina, certo è schiva, silenziosa e affronta la fatica di un reinserimento non facile dove anche una domanda priva di malizia buttata lì durante una cena tra conoscenti può creare momenti di imbarazzo e fortissima tensione. Ci sono il dolore sotterraneo e quindici anni di reclusione a ricordare ogni giorno a Juliette che il passato non si cancella, ritorna, viene rinfacciato, scatena recriminazioni.

Claudel mantiene però vivo il mistero sulle motivazioni del gesto della donna, ricostruendo poco a poco il rapporto tra due sorelle che, complice anche il totale rinnegamento da parte dei genitori della figlia omicida, non hanno avuto modo di incontrarsi per quindici lunghi anni.


È un dolore difficile da portare in scena quello di Ti amerò sempre, si rivela quindi indovinatissima la scelta di Kristin Scott Thomas; l'attrice con sguardi persi, silenzi, gesti contenuti e occhi colmi di sofferenza restituisce agli spettatori un bellissimo personaggio, capace di fare passi avanti, giorno dopo giorno, camminando in una vita e in un'esistenza in cui muovere anche un solo passo sembra essere straziante. Invece Juliette è una speranza, una seconda possibilità, un'esistenza che nulla ha a che fare con odio e violenza, una vita segnata tragicamente dall'amore. Probabilmente la scelta di un finale meno traumatico rispetto alle aspettative createsi durante il dipanarsi della vicenda, di un disvelamento più accomodante e meno disturbante di quello atteso, può facilmente sembrare poco coraggiosa e comoda. La chiusura scelta da Claudel è però coerente con lo sviluppo di una protagonista che non vuole mai essere un clichè negativo, nonostante la sua grave colpa inaccettabile agli occhi di molti. Non tutto per forza deve risultare shockante, cinico e cattivo, il finale scelto dal regista è una delle visioni possibili, probabilmente più consolatoria di altre ma anche più credibile, il male assoluto è presente nel nostro mondo ma per fortuna non si annida sempre ovunque.

Non è un giallo Ti amerò sempre, non è il mistero il nodo di una vicenda che è prima di tutto umana, è il dolore e la speranza, è la colpa, la pena ma soprattutto il riscatto quotidiano, quello degli affetti, della dignità, della vita da riprendersi giorno dopo giorno con la consapevolezza che insieme alle nuove speranze ci sarà sempre un vecchio compagno a camminare con Juliette, un dolore atroce con cui imparerà a convivere ma che fino alla fine dei giorni non svanirà mai.

lunedì 17 aprile 2017

IL GRANDE E POTENTE OZ

(Oz the great and powerful di Sam Raimi, 2013)

È un tripudio di colori e tedio l'ultimo film diretto da Sam Raimi. Mi sono accostato scettico alla visione de Il grande e potente Oz, il film non mi ispirava nessun tipo di interesse, poi al vedere il nome di Sam Raimi alla regia mi sono un poco rincuorato. Pur mancandomi alcuni tasselli della filmografia del regista, insieme al deludente Spider-Man 3, questo è sicuramente il film più noioso che mi sia capitato di vedere firmato (e filmato) da Raimi.

La parte migliore del film è la presentazione del protagonista, girata in un bel bianco e nero evocativo che ci mostra come il grande e potente Oz (James Franco) non sia altro che un cialtrone, un illusionista da quattro soldi che ha però l'ambizione di diventare un grande uomo del calibro di Thomas Alva Edison, intenzione ammirevole che non toglie il fatto che al momento Oz rimanga comunque poco più di un cialtrone. Originario del Kansas, Oz si ritrova in seguito a un volo in mongolfiera complicato da una strana tempesta, nel paese della città di smeraldo, raggiungibile seguendo una comoda strada di mattoni dorati, in quello che poi in seguito verrà conosciuto da tutti come il mondo di Oz.

Non ci sono Dorothy, il leone codardo, l'uomo di stagno e lo spaventapasseri (beh, forse c'è la loro versione in nuce), qui temporalmente tutto accade un poco prima, il mago deve ancora guadagnarsi la sua popolarità nel regno, c'è ancora da combattere e definire i ruoli tra salvatori e cattivi e la storia è ancora tutta da scrivere.

In un sovradosaggio di colore e digitale, in una scenografia tanto satura come in un film non dovrebbe mai essere, si svolge lo scontro tra un mago poco più che illusionista, la strega buona Glinda (Michelle Williams) e le sorelle Evanora (Rachel Weisz), strega malvagia dell'est e Theodora (Mila Kunis), strega malvagia dell'ovest. La confezione sontuosa e la durata eccessiva del film sembrano messe lì a sopperire l'apparente poco impegno del cast, anche Franco solitamente in gamba qui si accontenta del minimo sindacale, tutto si appiattisce a un livello talmente basso da risvegliare la noia anche nello spettatore più ben disposto nel giro di una manciata di minuti dall'arrivo nel regno di fantasia. Per assurdo le due interpretazioni migliori arrivano da due creature digitali animate presumibilmente in motion capture grazie all'attore Zach Braff che dà vita alla scimmia alata Finley, aiutante e facchino di Oz, e alla giovane Joey King, una dolce (quando vuole) bambola di porcellana. Entrambi gli attori hanno anche una parte nel prologo del film.


Tutto il resto, come cantava il Califfo, è noia. Sembra che dopo questa prova Sam Raimi si sia dedicato con maggior impegno e successo al televisivo Ash vs. Evil Dead che a detta della critica sembra essere un prodotto più divertente e riuscito. Segnaliamo ancora il solito cameo di Bruce Campbell immancabile in ogni film del regista, cameo che devo essermi perso in uno dei momenti di crisi per sonnolenza acuta. A chi non avesse ancora visto il film consiglio di continuare a rivolgersi a Judy Garland, se siete fan di Franco guardatevi tranquillamente la pubblicità di Zalando che è più divertente e dura meno.

C'è anche chi ha azzardato una lettura sul potere dell'illusione, anche dal punto di vista politico, che almeno nella nostra società si trasforma in supercazzola se non proprio in malafede, inganno e menzogna. Ci può stare, alcuni passaggi del film si possono leggere anche sotto quest'ottica, ciò non toglie che il livello di tedio si assolutamente sopra il livello di guardia, come non accade nemmeno nelle peggiori tribune politiche.

venerdì 14 aprile 2017

IL TESCHIO DEL DESTINO

(di Alfredo Castelli e Claudio Villa)

Dietro l'affascinante copertina disegnata da Giancarlo Alessandrini si cela ancora una volta una buona storia sviluppata nell'arco di due albi, quello citato nel titolo del post e il successivo All'ombra di Teotihuacan. Un Martin spigoloso, plastico, in posizione di difesa, stagliato su uno sfondo dai motivi precolombiani, fissa preoccupato un teschio ridente, all'apparenza trasparente e che ricorda il volto del famoso Fantaman dei cartoni animati. C'è tutto il talento di un disegnatore che senza abusare in tratteggi e lacchezzi compone immagini evocative e intriganti apparentemente con una semplicità disarmante.

Questa volta spunto della vicenda imbastita da Castelli non è un mystero molto celebre, tutt'altro, si parla del Teschio del Destino, un teschio a grandezza naturale in cristallo che sembra essere scolpito in un unico pezzo, senza aggiunte o incastri, ritrovato nel 1927 a Lubantuun e, sembra, risalente alla civiltà Azteca, epoca in cui la realizzazione di un manufatto simile sarebbe stata per niente semplice. Nella storia di Martin Mystère il teschio, conservato al Museum of Mankind di Londra (si trova lì anche nella realtà) ha particolari poteri e influenze negative su alcuni individui, qui una ragazza in particolare che si convince di essere lo spirito del dio Teotihuacan. La vicenda è un poco intricata e ben allestita, prima di trovarsi coinvolto nell'affaire del teschio di cristallo Martin Mystère avrà a che fare con una vendita da cortile, con delle diapositive di famiglia e con un equivoco pubblicitario, una sequenza di eventi che lo porterà in Messico dove incontrerà il suo vecchio amico Lopez e dove si svolgerà il grosso della vicenda (o almeno la parte più action per i nostri eroi).

Non male questo dittico di storie che mi ha permesso di conoscere il teschio di cristallo (di cui non ero a conoscenza, e no, non ho visto il relativo Indiana Jones e nemmeno so se possa essere attinente all'argomento) e che si è rivelato lettura piacevole, qui il punto di grande interesse sta nelle matite di un Claudio Villa, che non è il reuccio che qui è omaggiato, ma l'artista che siamo abituati ad associare più a Tex che non a Martin Mystère.

Villa è indubbiamente un ottimo disegnatore, quello che colpisce è la cura che il disegnatore mette nel tratteggiare anche le comparse e le persone che sono solo sfondo nelle sue vignette, volti ben caratterizzati, che hanno personalità, espressivi come espressivi in maniera convincente sono i protagonisti della storia in ogni situazione. Il teschio è minaccioso, i panorami sontuosi, Martin molto elegante, Java un vero neandertaliano. Dinamico negli scontri, negli inseguimenti, Villa trasmette tutto l'impegno per un lavoro artigianale fatto con passione, anche se non tutte le vignette possono considerarsi al top, la professionalità e il talento del disegnatore sono innegabili.

Il teschio di cristallo

lunedì 10 aprile 2017

LA PAZZA GIOIA

(di Paolo Virzì, 2016)

Si parla di cinema italiano e viene naturale pensare alla commedia. È diventato ormai un riflesso condizionato, un collegamento che spesso le nostre menti compiono in maniera aprioristica e automatica, non in virtù dell'epoca d'oro della Nostra Commedia, riconosciuta altissima ovunque, ma semplicemente perché qui da noi, oggi, ci si azzarda a fare poco altro. Tra gli esponenti più autorevoli della commedia contemporanea c'è sicuramente Paolo Virzì, regista intelligente e dallo sguardo attento, anche lui associato al genere con molta facilità e a volte con una dose di faciloneria. La pazza gioia è tutt'altro che una commedia; certo ne mantiene alcune strutture, alcuni topoi e anche, di quando in quando, i giusti tempi comici. In questo caso parlare in generale di commedia, pur non essendoci nulla di male, anzi, mi sembra in ogni caso riduttivo. Ad ogni modo, se proprio così vogliamo considerare La pazza gioia, potremmo dire che questo è uno di quei film capaci di innalzare nuovamente il livello medio della commedia italiana davanti agli occhi del mondo.

La coppia di personaggi molto diversi tra loro, se non proprio agli antipodi, è in effetti un classico della commedia di tutti i tempi, se non vogliamo scomodare proprio Stanlio e Ollio (menzionati anche dalla stessa Valeria Bruni Tedeschi durante la premiazione dei David di Donatello), pensiamo a Jack Lemmon e Walter Matthau, a tutte le coppie dei buddy movies, o a Jerry Lewis e Dean Martin solo per citarne alcune. Certo, anche Virzì mette in scena due personaggi molto diversi tra loro, la Donatella Morelli interpretata da Micaela Ramazzotti, donna molto giovane che si porta già sulle spalle un bagaglio tragico carico di sofferenza e depressioni, e la Beatrice Morandini Valdirana alla quale dà vita una stratosferica Valeria Bruni Tedeschi, donna che arriva dal bel mondo, abbandonata e ferita, afflitta da un disagio mentale che la porta a essere sempre un tantino euforica e sopra le righe. A differenza di ciò che accade nella commedia classica dove i protagonisti, o la coppia protagonista se vogliamo attenerci ai nomi di cui sopra, spesso sono semplici macchiette, elementi archetipici a uso e consumo della gag o della battuta divertente, magari interpretati da attori bravi quanto si vuole ma in fin dei conti quasi sempre figure bidimensionali, qui ci sono due protagoniste che di comico non hanno proprio nulla, due personaggi scritti e approfonditi in maniera egregia, con un vissuto ascrivibile alla più cupa delle tragedie, narrate a volte con leggerezza, a volte con delicatezza, a volte in maniera più comica (e in questo sta tutta la bravura di Virzì e della Archibugi in sede di sceneggiatura), che però non si fanno ricordare per la risata che sono capaci di strapparti quanto per l'esistenza dolorosa, anche aperta alla speranza, alla quale queste due donne sono state sottoposte, esistenze che chiunque abbia avuto a che fare con il disagio mentale e con la depressione potrebbe aver toccato con mano.


Beatrice, affetta da disturbi mentali, risiede a Villa Biondi, una comunità in Toscana presso la quale viene alloggiata anche la giovane Donatella, affetta da manie depressive, legata in vari modi a figure maschili completamente sbagliate e con un passato recente molto duro alle spalle. Esuberante, pretenziosa e spesso indisponente la prima, chiusa in sé stessa la seconda, le due solitudini avranno modo di incontrarsi a metà strada e in modi diversi di aprirsi l'una con l'altra, aiutandosi a vicenda, anche involontariamente e a spese del personale sanitario che, perdutele di vista in occasione di un'uscita lavoro, se le ritrova in fuga in un road movie al femminile che può ricordare quello delle celebri Thelma e Louise ma che a conti fatti risulta decisamente più credibile, più umano e proprio per questo anche cinematograficamente superiore.

Ciò che di più bello rimane del film, pur carico di altri personaggi in qualche modo importanti, è lo splendido rapporto tra queste due meravigliose donne/attrici, la Bruni Tedeschi semplicemente perfetta nelle sue imperfezioni e una Ramazzotti bravissima anche nell'adattarsi alla cadenza toscana, probabilmente aiutata proprio dalla convivenza con Virzì, due attrici che sono riuscite a dar vita con adesione commovente a due personaggi che con facilità rimarranno impressi nella memoria.

La vittoria ai David di Donatello, oltre che meritata, è diventata una splendida coda al film grazie alla performance della Tedeschi, inarrivabile anche in quella particolare occasione, commovente con un filo di follia, un po' come se invece dell'attrice il premio l'avesse vinto proprio Beatrice.

sabato 8 aprile 2017

NADIA REID - PRESERVATION

Preservation arriva ad un paio d'anni di distanza dall'album di debutto di Nadia Reid,  giovane cantautrice neozelandese. Nonostante la giovane età, lungo le tracce di questa sua seconda prova, risulta evidente come l'artista abbia già raggiunto un certo grado di maturità andando a comporre un lotto di canzoni spesso minimali nella struttura, nelle variazioni, delicate nei toni e nell'uso delle chitarre, ma sempre interessanti negli arrangiamenti, delicati anche questi e mai invadenti, ma capaci di attrarre l'attenzione dell'ascoltatore su un particolare, su un suono seminascosto sullo sfondo, una nota in grado di donare scie di moderata ricchezza ai brani, capacità di non poco valore che emerge più volte lungo l'ascolto di un album peraltro intriso di una importante (ma sempre gradevole) vena malinconica.

Siamo nei territori del folk e del cantautorato al femminile, già al tempo del disco d'esordio della Reid la critica specializzata aveva speso i nomi di Laura Marling e quello di diverse altre star dal mood affine come termine di paragone, sottolineando come qualche passo ancora andava fatto dalla Reid per un pieno raggiungimento di una personale cifra stilistica. Pur non avendo a disposizione una così vasta gamma di soluzioni vocali da apportare alla causa della sua musica, Nadia Reid sopperisce senza problemi a questa piccola "mancanza" grazie a un'espressività sincera, tecnicamente non sempre così sicura e incisiva, ma molto spesso toccante e onesta.

Preservation è un brano che è perfetto esempio della proposta della Reid, con la sua dolcezza malinconica aperta a sprazzi di ottimismo e squarci di sereno all'orizzonte, mediata da una fiducia conquistata con l'esperienza; un brano affascinante per la messa in campo di suoni che sono richiami, inviti pudìchi a un ascolto più attento. Non mancano inserti elettrici in composizioni che ricorrono ad arrangiamenti un poco più graffianti (The arrow and the aim) che non alterano troppo l'equilibrio di un lavoro che mantiene sempre e comunque toni intimisti e personali ma che non disprezza sguardi al lato più rock di questo genere di proposta (Richard).  Si alternano ballate melodiche, anche più convenzionali se vogliamo (I come home to you), a fraseggi più sentiti, piccole confessioni (Hanson St. Pt. 2) che hanno il sapore della verità. Una bella linea di basso apre Right on time, subito doppiata dall'inserto di chitarra e il brano è bello che costruito, ancora una volta arrangiamenti indovinati a supporto, all'apparenza con facilità e felicità un pezzo prende un andamento vitale per poi smorzarsi nel passaggio alla successiva e acustica Reach my destination.

Preservation è un album che alterna al minimalismo sognante (Te Aro) composizioni più immediate e canoniche (The way it goes) senza soluzione di continuità, manca forse il pezzo capace di segnare l'ascolto, di rimanere impresso, quella tappa obbligata di un viaggio che si rivela comunque piacevole dall'inizio alla fine.


Preservation, 2017 - Basin Rock

Tracklist:
01  Preservation
02  The arrow and the aim
03  Richard
04  I come home to you
05  Hanson St part 2 (a river)
06  Right on time
07  Reach my destination
08  Te Aro
09  The way it goes
10  Ain't got you

venerdì 7 aprile 2017

ANTEPRIMA GUS VAN SANT

Il momento si avvicina, sulla pagina web di Magazzini Inesistenti potete trovare l'anteprima del mio pezzo sul cinema di Gus Van Sant spalmato su ben sei pagine. Emozione, doppia emozione, tripla emozione...










domenica 2 aprile 2017

IL TUNNEL DELL'ORRORE

(di Tiziano Sclavi e Montanari & Grassani)

Pur non rientrando nel novero dei miei disegnatori preferiti, come già sottolineato più volte, c'è da rendere merito al duo Montanari & Grassani per la loro instancabilità, oltre a essere stati tra gli autori più prolifici sulla testata dedicata all'indagatore dell'incubo, almeno fino a questo ventiduesimo episodio, qui infilano (per la seconda volta) una doppietta di racconti (questo e quello del mese precedente) per un totale di tavole davvero non indifferente. Insomma, un'equipe ben rodata sulla quale si poteva sempre contare. Quindi il duo all'opera per la seconda volta consecutiva e, per la seconda volta consecutiva, anche una storia dove l'orrore affonda nel quotidiano ed è provocato dalla follia degli uomini, a volte improvvisa e spiazzante, a volte lucida e premeditata.

Questa volta nel solito gioco citazionista è protagonista il grande Clint Eastwood. Harwell, Berkshire. Il giovane Clint, che di cognome fa Callaghan, è un ragazzo per bene, studioso, pacato, proveniente da una buona famiglia che gestisce l'armeria del paese. È un posto sonnolento Harwell, una delle poche attrazioni del paese è il Luna Park con le sue baracche per i giochi, le giostre e il Tunnel dell'orrore nel quale si possono ammirare scheletri assortiti, Dracula, l'uomo lupo, zombi e orrori vari. Ma il vero orrore viene scatenato proprio dal mite Clint che in un impeto di follia inizia a sparare sulla folla, falciando donne, bambini, i pochi visitatori del Luna Park e i vari gestori provocando una strage insensata e inaspettata.

Barricatosi con un ostaggio all'interno del Tunnel dell'orrore, dopo l'arrivo dell'ispettore Bloch, della polizia e dell'esercito, il giovane Clint chiede di Dylan Dog. Oltre che con l'ottusità dei militari, sempre pronti a premere il grilletto e ad aggiungere violenza a violenza, Dylan dovrà confrontarsi con una storia proveniente dal passato che affonda nell'orrore con la maiuscola, quello legato all'ideologia nazista propugnata qui dal Dottor Hicks già visto nell'episodio Fra la vita e la morte, personaggio che si candida a essere una delle nemesi ricorrenti dell'indagatore di Craven Road.

Episodio che ancora una volta preme sull'orrore possibile, quello quotidiano, quello che di tanto in tanto esplode e che se sei fortunato vedi solamente nei telegiornali e non in prima persona. La follia omicida, qui mischiata all'orrore della scienza fuori controllo, contro natura e insensata, e alla pazzia maligna di individui squilibrati è la vera protagonista. Manca un po' di quella vena da orrore strisciante e sotterraneo che a volte regala quel quid in più alle storie di Dylan Dog, rimane un altro buon tassello che puntella ancora una volta la crescita di un'ottima serie.

sabato 1 aprile 2017

TOMAS MILIAN - IL DOLCE TRUCIDO

In una delle interviste riproposte in questi giorni in televisione in seguito alla sua scomparsa, Tomas Milian affermava come avesse sempre voluto fare film popolari, prodotti per far divertire la gente; e come, di contro, non fosse interessato a fare film per gli intellettuali, perché questi ultimi, a suo dire, non sarebbero capaci di amare. Lui, l’attore, aveva invece bisogno dell’amore del suo pubblico, in maniera viscerale, un amore che è riuscito a ricevere a grandi dosi, in particolare dal pubblico romano grazie ai suoi personaggi più celebri: quello dell’ispettore Nico Giraldi e quello del delinquentello Monnezza. Nonostante chi scrive non abbia nessun legame affettivo con i personaggi sopra citati, anche a me è impossibile in effetti non ricordare Milian nelle vesti di Giraldi: aspetto trucido, il ricciolo lungo, la barba scura, il berretto di lana calato sulla testa, la voce di Ferruccio Amendola. Eppure Milian è stato molto altro, oltre alle maschere che tanto lo hanno reso riconoscibile nei film di Bruno Corbucci e Umberto Lenzi (e di qualche altro regista) l’attore ha interpretato numerosi personaggi al servizio di grandissimi registi del cinema italiano, attraversandone diverse epoche e tutti i principali filoni. 

Il primo periodo della carriera sembra essere a tutti gli effetti il più impegnato di Tomas Milian che diventa volto ricorrente del cinema italiano d’autore, legando il suo nome a quello di direttori come Mauro Bolognini (La notte brava, Il bell’Antonio e Madamigella di Maupin), Luchino Visconti (Boccaccio’70), Pier Paolo Pasolini (Ro.Go.Pa.G.) e Alberto Lattuada (L’imprevisto) tra gli altri. Con ruoli a volte centrali, a volte da comprimario, come accade ad esempio al fianco di Marcello Mastroianni ne Il bell’Antonio, Milian inizia a far conoscere il suo volto giovane, spesso molto pulito, lontano da quello a cui solitamente pensiamo nell'udire il nome di Tomas Milian. La sua carriera decolla nel modo che sembra il più alto e onorevole possibile per un attore, ma lui, contro tendenza, è alla ricerca della gente, di storie più semplici forse, più vicine al basso, così dopo anni di collaborazioni prestigiose nel cinema detto d’autore, Tomas decide di non rinnovare i contratti che lo legavano alla sua casa di produzione dell’epoca (la Vides) per dedicarsi ad altro.


Siamo nella seconda metà dei 60, con The bounty killer di Eugenio Martìn, coproduzione italo-spagnola, il Nostro si inserisce nel filone dello spaghetti western. È un Milian più rude quello western ma dal volto ancora graziato dalla beltà della giovinezza; appena trentatré anni e già venti film alle spalle, diventa protagonista di una stagione indimenticabile dove spesso al cinema è il male a vincere, la violenza è protagonista e non si esime dal portare dalla sua parte anche anime candide; è l’occasione per Tomas Milian di lavorare al fianco di attori di caratura altissima come Gian Maria Volonté (Faccia a faccia di Sergio Sollima), Lee Van Cleef (La resa dei conti, sempre Sollima), Orson Welles (Tepepa di Giulio Petroni), Franco Nero (Vamos a matar companeros di Sergio Corbucci) ed Eli Wallach (Il bianco, il giallo, il nero ancora Corbucci). Nomi in alcuni casi fondamentali per il genere, in altri semplicemente enormi tout-court. Il primo passo, importantissimo, per entrare nell'immaginario e nei cuori del grande pubblico è fatto. 


Nel 1968, quasi in un passaggio dallo spaghetti al poliziottesco, Tomas Milian è protagonista di Banditi a Milano di Carlo Lizzani (regista noto per il suo impegno politico e sociale) dove interpreta l’investigatore alle costole della banda Cavallero, in un film che restituisce un aspetto dello spaccato sociale di quegli anni violenti. Da ricordare qualche anno più avanti anche la partecipazione a uno dei film più apprezzati di Lucio Fulci: Non si sevizia un paperino (1971), anche questo ispirato a un terribile fatto di cronaca.

Verso la metà dei 70 esplode il poliziottesco italiano e Milian ha proprio la faccia giusta per inserirsi in un contesto urbano delinquenziale: attore e uomo ormai maturo, si adatta al filone senza problemi, lasciando il segno in titoli ancor oggi noti ai fan del genere (e non solo): Squadra volante (di Stelvio Massi), Milano odia, la polizia non può sparare e Il giustiziere sfida la città (entrambi di Umberto Lenzi) e ancora, La polizia accusa: il Servizio Segreto uccide (di Sergio Martino). Sono gli anni del Cinema italiano degli artigiani, dell’esplosione dei generi, con lo spaghetti al tramonto ma con vivissimi exploit nel giallo, nell'horror, nel thriller e proprio nel poliziottesco che, come accadde anche al western, venne poi ibridato con una vena d’umorismo che ha portato a personaggi amatissimi dal pubblico: pensiamo alla coppia Bud Spencer e Terence Hill nel western e proprio a Giraldi e Monnezza per il poliziottesco. L’amore per Tomas Milian esplode, l’attore è ormai un romano onorario, e dà vita con Bombolo a una coppia inossidabile. Rimangono titoli arcinoti come Squadra Antiscippo, Il trucido e lo sbirro, Squadra antifurto, Assassinio sul Tevere, Delitto al ristorante cinese e tanti altri ancora.


Negli anni 80 frequenta la commedia ancora con Bruno Corbucci e con Pasquale Festa Campanile, rimanendo fedele a un’idea di cinema che ormai calza a pennello all'attore giunto in Italia più di trent'anni prima, ai quali si aggiungono un paio di ritorni al cinema d’autore: per Bernardo Bertolucci ne La Luna e per Michelangelo Antonioni in Identificazione di una donna

Negli ultimi decenni della sua carriera guarda a Hollywood con partecipazioni anche minime in produzioni importanti a servizio di grandi registi. Partecipa a Oltre ogni rischio di Abel Ferrara, ad Havana di Sydney Pollack, a JFK – Un caso ancora aperto di Oliver Stone, ad Amistad di Steven Spielberg e al Traffic di Steven Soderbergh.

Tutte collaborazioni eccellenti che il pubblico però poco ricorda, perché proprio come lui voleva (e di questo siamo qui a rendergli merito) a ricordarlo è proprio il popolo che gli ha voluto bene, per Giraldi, e per er Monnezza. Siamo sicuri che se da lassù fosse lui a doverci consigliare di guardare (o riguardare) uno dei suoi film, Tomas sceglierebbe per noi senz'altro uno dei suoi più trucidi.

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...