mercoledì 1 novembre 2017

A-Z: ANTLER - NOTHING THAT A BULLET COULDN'T CURE

Per diversi aspetti che a breve andremo ad elencare, il secondo lavoro degli Antler potrebbe spiazzare l'ascoltatore che già conosce le origini della band, così come l'ignaro curioso che si avvicina all'album fidandosi a occhi chiusi di ciò che promettono titolo e copertina del disco (e che non mantengono, non completamente almeno). Tutto ciò è male? Non necessariamente, non necessariamente...

Cover virata al marrone, il colore della terra, della polvere e del cuoio, quello dei cinturoni, il marrone degli stivali, del pelo di molti cavalli. In primo piano l'impugnatura di una colt: il calcio, il tamburo, il grilletto. Il font che recita "Antler" è quello classico delle insegne del vecchio West. All'interno la mano di un morto, gli stivali di un cowboy (o di un killer) non lasciano dubbi, siamo proprio nel selvaggio ovest americano. Un titolo indovinato: "Nulla che un proiettile non possa sistemare", sembra di sentir parlare Tex Willer. Insomma, ti aspetti un poco la musica del Sud, magari un bel gruppo southern figlio degli Allman, degli Skynyrd o al limite atmosfere desertiche più moderne, vicine all'ultimo Garwood o allo stoner dal quale arrivano diversi membri della band: Ian Ross (chitarra), Craig Riggs (voce) e Tim Catz (chitarra), tutti ex Roadsaw, band stoner già sotto contratto da metà degli anni 90 con la stessa Small Stone Records che ha pubblicato anche questo Nothing that a bullet couldn't cure nel 2006. Ai tre ragazzi di cui sopra si uniscono per il progetto Antler anche il bassista Marc Schleicher, il batterista Brian Strawn e il tastierista Dave Unger.

In realtà la proposta degli Antler risulta più fresca ma anche decisamente più leggera di quel che ci si possa aspettare, pone le sue basi sui classici stilemi dell'hard rock, fatti di riff granitici e soli di chitarra, non disdegna i territori del Sud degli Stati Uniti, lambisce pochissimo lo stoner delle origini ma contamina il tutto con un sound che ricorda molto rock dei 90 con inserti di strumenti aggiunti che ravvivano l'insieme di questo secondo lavoro della band.

Il pezzo d'apertura, The gentle butcher, è un hard rock sanguigno, diretto e onesto, al lavoro classico svolto dalle chitarre si affianca da subito la voce di Craig Riggs che dona aperture molto melodiche al brano, passaggi che spesso riportano alla mente lo Scott Weiland degli ultimi Stone Temple Pilots o addirittura il Neal Morse degli Spock's Beard, ben dosati gli innesti dei fiati di John Fraser che donano vivacità a un brano altrimenti davvero tanto canonico. La coda dell'opening track sfocia nell'attacco bondiano di Deep in a hole, ancora hard rock, rimandi ai primi Black Crowes grazie anche all'armonica di Rob Lohr, la band risulta coesa e compatta andando a creare un sound se non proprio personale almeno piacevole da ascoltare. Le influenze dei nineties si fanno sentire molto in a Little goes a long way, sorta di ballad energica e dolce allo stesso tempo, si rallenta ancora con Behind the key, pezzo leggermente più lisergico che guarda parecchio più indietro nel tempo tenendo i piedi sempre ben ancorati all'interno di un sound molto riconoscibile per chi ha amato i Pilots post Purple e Core, bei suoni e assolo lungo a impreziosire il pezzo. Finalmente le tastiere si ritagliano il loro spazio in They know I'm the one, ci sarebbero piaciute forse più invadenti e soprattutto avremmo voluto sentirle un poco di più nell'intera economia del disco, accontentiamoci per ora, prima di passare a Frozen over che ha tanto il sapore del filler senza particolari guizzi da offrire. Le successive Remind me of a way e Black eyed stranger richiamano ancora i riferimenti di cui abbiamo già detto, allontanandosi anche un po' dal versante più tradizionale, forse nei testi si respira un po' di quella polvere cara al vecchio west, come dimostra il titolo See me hang, brano che inizia in maniera molto soft, una bella ballata sulla quale continua ad aleggiare il fantasma di Weiland, in fondo Riggs come epigono non è poi neanche malaccio e l'ascolto dell'album risulta quindi piacevole. Ci si avvia alla conclusione con la più tirata My favorite enemy e con la dolcezza di A river underground.

Pescano un po' qua e un po' là gli Antler per confezionare questo prodotto, pulito, ben suonato, potenzialmente piacevole per diversi segmenti di pubblico, Nothing that a bullet couldn't cure, a prescindere dal titolo bellissimo, è uno di quei dischi che non cambierà la vita a nessuno, che non resterà impresso nella storia della musica e nemmeno nella nostra memoria, potrebbe però regalare diverse ore di piacevole ascolto a più d'uno di voi (noi). Una possibilità possiamo anche dargliela.



Nothing that a bullet couldn't cure, 2006 - Small Stone Records

Brian Strawn: batteria
Ian Ross: chitarra solista
Craig Riggs: voce
Dave Unger: tastiere
Marc Schleicher: basso
Tim Catz: chitarra

Tracklist:
01  The gentle butcher
02  Deep in a hole
03  A little goes a long way
04  Behind the key
05  They know I'm the one
06  Frozen over
07  Reminds me of a way
08  Black eyed stranger
09  See me hang
10  My favorite enemy
11  A river underground

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